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Berenice in mezzo ai lupi. L'altra faccia dell'ecosostenibile

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I rischi dell'eolico in un libro

 
4 libri per dire no all’eolico selvaggio

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Vi segnaliamo

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4 libri per dire no all’eolico selvaggio

DI: Redazione

Da quando Italia Nostra ha iniziato a denunciare e manifestare contro l’eolico selvaggio, il falso business che vi è legato e la distruzione del paesaggio, si è potuto constatare un crescente avvicinamento a queste posizioni di molti gruppi, personalità, intellettuali, associazioni, giornalisti… Ora la battaglia approda anche nel mondo dell’editoria, vi suggeriamo quindi 4 libri:

alt“Controvento. Il tesoro che il Sud non sa di avere”di Antonello Caporale

Controvento, libro scritto due anni fa dal giornalista del “Fatto Quotidiano”, racconta il forte sviluppo delleolico nel Sud Italia. Protagonista è Antonio Colucci, contadino verace che si trova invischiato in questo nuovo, micidiale business.

scoprine di più su sinapsinrete.wordpress.com

alt“La collina del vento” di Carmine Abate

In questo romanzo, vincitore anche del prestigioso Premio Bancarella, compaiono nella lunga storia di due generazioni sia il primo presidente nazionale di Italia Nostra Umberto Zanotti Bianco sia il rifiuto dei proprietari di cedere la loro collina agli speculatori eolici.

scopri tutto su www.carmineabate.net

alt“Il sole, le ali e la civetta”di Lucia Navone

Un’inchiesta sul mondo delle energie rinnovabili che cerca di spiegare, attraverso l’analisi dei fatti, perché l’Italia ha perso una grande occasione anche in un nuovo settore, senza possibilità di ritorno, almeno a breve.

scopri tutto su www.lucianavone.it

alt“Berenice in mezzo ai lupi”di Annunziata D’Alessio

“Ora l’impegno per il paesaggio e contro l’eolico selvaggio – spiega D’Alessio – arriva anche fra i banchi di scuola. E’ tempo di allertare i nostri ragazzi e i giovani tutti sul valore del nostro ambiente naturale, della nostra irrinunciabile vocazione agricola, che ha dipinto il paesaggio del nostro Molise. Contro l’eolico selvaggio e non solo. Un racconto per aprire gli occhi. Nulla ci è stato regalato, tutto va sempre difeso. L’impegno comincia quando inizia la scuola”

Leggi l’introduzione del libro clicca qui

Leggi la prefazione del libro scritta da Oreste Rutigliano clicca qui

 

 

 
Conferenza Stampa Eolico Selvaggio

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Conferenza stampa tenuta dall’autrice presso la sede centrale di Italia Nostra -Campobasso-
Eolico selvaggio. Un’ampia riflessione sulla triplice relazione: Uomo /Natura, Uomo/ Bellezza,
Uomo/ Dio.

 
Berenice in mezzo ai lupi. Racconto in tre atti

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"Berenice in mezzo ai lupi" diventa un libro di testo

Articolo di Lucio Renzi

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La poesia sorella della preghiera. Scoprendo Francesco

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La poesia sorella della preghiera
Scoprendo Francesco

di Annunziata D'Alessio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In un mondo moderno, epocale, di galoppante secolarizzazione, che coincide sempre più con un processo di "de-cristianizzazione" infernale, in cui la società è svuotata e Dio cacciato fuori dal suo stesso "giardino", se si approfittasse delle candide parole francescane di tenerezza — messaggio ormai dilagante di eccezionale persuasioneper tornare alla poesia e dalla poesia a Dio?
Se Amor ch'al cor gentil ratto s'apprende, cosa più della bellezza poetica è "... forza che non è mossa ma che muove" (Shelley) ?! 

Julien Ries, eminente antropologo e cardinale belga, ha riconosciuto nelle buie caverne primitive le prime "cattedrali" decorate da graffiti, opere prime di un moto interiore in cerca di  "verità".
L'homo sapiens prima di essere homo habilis o erectus è stato homo religiosus: homo naturaliter religiosus!
Nel momento in cui il cavernicolo analfabeta si è fermato a contemplare il cielo stellato ha incosciamente scoperto la mano di Dio. Prima ancora del fuoco, che introduce la civiltà, l'uomo di Neandertal ha percepito la propria finitudo e, da lì in poi, ne ha cercato l'origine e il senso guardandosi intorno.

Che fai tu luna in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
...ove tende
Questo vagar mio breve,        
Il tuo corso mortale?
.....................................
Che fa l'aria infinita, profondo
Infinito Seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?
Così meco ragiono.(...)

(G.Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)

Il senso del sacro, insito nel mistero, nasce con l'uomo e coincide con un senso legittimo che è il senso di sé, di quell'io che per esistere pienamente ha bisogno di appartenere a qualcuno o qualcosa.

Il Dio degli dèi distaccò da sé
uno spirito
e creò in lui la bellezza.

E Dio sorrise e pianse,
conobbe un amore senza limiti e senza confini
e congiunse l'uomo al suo spirito.


                                                                                                                             (Kahlil Gibran, Creazione)

La bellezza del creato custodisce Dio, è la prova dell'esistenza d'altro e... la poesia il canto della sua voce.

 

Omaggio alla Chiesa buona / 19 Marzo 2013. Messa d'inizio pontificato di Papa Francesco.

 


 

 

 
Un autore, due quadri e un libro ci raccontano il nuovo Papa Francesco

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Un autore, due quadri e un libro ci raccontano il nuovo Papa Francesco

di Annunziata D'Alessio

 

Cosa può venire fuori da un uomo divenuto Papa che ha la stessa nazionalità di uno degli autori più immensi della storia della letteratura, Jorge Luis Borges, di cui si dichiara appassionato lettore? Magari un desiderio di conoscenza così armonico ed incondizionato per il quale l'Aleph borgesiano sia ammesso tradurlo nell'idea di un Dio conciliante.

Che cosa può significare in un uomo divenuto Papa avere La crocifissione bianca di Chagall, un'opera moderna e rappresentazione di uno strazio straordinario, come quadro del cuore? Forse che ha nella sua sensibilità, oltre ad un gusto raffinato, i mezzi elettivi per entrare nei drammi della storia contemporanea.

A cosa intende rinviarci un uomo divenuto Papa con l'imposizione del nome "Francesco", proprio in questa epoca di corruzione, di grande confusione e di continue responsabilità demandate? E' facile che, in un possibile gioco di rimandi, si voglia condurci ai piedi di quell'immagine del quadro di Giotto in Assisi, manifesto di una Chiesa tracollante, retta sulle spalle dall'umile Santo.

E cosa c'è nella scelta di un nome senza precedenti? Sicuramente l'impegno, il sinonimo di una Chiesa mai conosciuta nella storia del Cattolicesimo: pura, modesta, incontaminata d'avidità e vanità, sorella del suo popolo come ebbe a fare il povero fraticello a cui fu detto:- Va e ripara la mia Casa!

C'è nella scelta di questo nome indubbiamente una dichiarazione d'intenti. Tutta la volontà di un programma che aspira, se non a rompere, quanto meno ad alleggerire le pesanti sovrastrutture di un' artificiosità che tanto incompatibili risultano con la semplicità di Cristo, declinando verso un agire più umanamente cristiano. Un nome che è un vero epiteto di fiducia e fratellanza fra l'alto disegno di Dio e la sua gente sulla Terra.

Come Artabano, Il quarto Re Magio di Holder Mig, arriva dopo, per ultimo, in un ritardo che lo colloca addirittura non davanti alla mangiatoia, ma presso il Golgota di nostro Signore — perchè ha indugiao nel cammino durato il tempo di una vita, rallentato dalla pietà e dallo spirito di carità che lo ha trattenuto di fronte ai bisognosi incontrati lungo il percorso — così l'ultimo Pontefice con "Francesco"  investe se stesso e la Chiesa di un'osservanza che non è solo un adattamento favolistico-leggendario del passo evangelico: "quello che farete al più piccolo dei miei fratelli lo avrete fatto a me", ma l'attuazione da sempre glissata di una volere dvino.

14 Marzo 2013

 

 

 
Fra i classici del pensiero: Le fantasticherie del passeggiatore solitario

rosario farnitano

 

Fra i classici del pensiero:

Le fantasticherie del passeggiatore solitario

di Annunziata D’Alessio

 

 

 

 

 

 

 

 

Monsieur Rousseau,  
ma lei non doveva morire solo e dimenticato da tutti?!

Sono dunque solo sulla terra, senza fratelli né parenti né amici, né altra compagnia che me stesso (…).

Tutto è finito per me sulla terra (…).

Che di questi scritti…se ne impadroniscano, che li sopprimano (…). 

 Io non li nascondo né li mostro (…).

Con tanta amarezza si apre la Prima passeggiata de Le fantasticherie del passeggiatore solitario, considerate il testamento letterario di uno degli ingegni più illuminati della storia del mondo, Jean-Jacques Rousseau. Eppure nel suo XVIII secolo, lui, figlio patito di una società avvertita ostile, incompreso ed alienato, non avrebbe mai sospettato la gloria che ha poi sostenuto le sue opere. Certo gli scritti di Rousseau non sono stati né esecrati né dilaniati. Sono sopravvissuti sino alla nostra era come manuale di pedagogia (l’Emilio), fondamento della filosofia (Discorso sulle scienze e sulle arti), presupposto culturale per uno scossone politico-civico. Il Contratto sociale ha influenzato la Costituzione degli Stati Uniti d’America, ha fomentato le coscienze che hanno elaborato i principi della rivoluzione francese e…oggi, più che mai attuale, offre pane per i denti al nostro “Grillo parlante” d’Italia. Le fantasticherie…(che pur sempre di geniale intelletto trattano, anche se in uno spirito esaurito o consunto sul far del tramonto ), non sarebbero, però, mai state scritte se non ci fosse stata proprio quella farneticante percezione sofferta di sé e del suo operato. Fu l’uomo, colmo d’acredine, che aveva ormai rinunciato a trovare “un cuore giusto nel mondo”, che si ritirò in campagna, distante, al riparo da una civiltà spuria d’umano: per morire, in un circuito chiuso, non da solo ma in compagnia di se stesso:

 …scrivo le mie Fantasticherie soltanto per me. Se nei giorni ancor più tardi, vicino alla morte, resterò come spero nella stessa disposizione di ora, la loro lettura mi ricorderà la dolcezza che provo a scriverle; e, facendo risorgere per me il tempo passato, raddoppierà per così dire la mia esistenza. A dispetto degli uomini, saprò  gustare ancora la gioia della società e vivrò decrepito con me in un’altra età come se vivessi con un amico meno vecchio.

Queste pagine grigie, di morbose circumnavigazioni mentali, di lancinanti elucubrazioni, sembrano farsi sepolcro, nascondersi in un oscuro dimenticatoio se non addirittura generarsi ed annullarsi in una sorta di sistema autarchico, in cui l’autore, che è il protagonista, fa da lettore mentre risulta esserne al contempo destinatario. In realtà, per quanto al loro interno appaia rinnegata ogni volontà di contatto ed espressione, essa è solo camuffata. 
Le fantasticherie… —  in una formula doppia ed innovativa di saggio e diario intimo, per lo più prodotte dalle stesse passeggiate del caso, dispensatore fortuito d’incontri, eventi e sensazioni  —  sono il libro di una infelicità estrema ma anche di una immensa felicità. L’autosufficienza ”divina”, che le contempera, rappresenta l’ultimo atto e soprattutto la massima designazione di una volontà di scrivere, che è necessità pura di garantire ed affermare la propria esistenza nell’apoteosi di un anziano cuore narrante.

8 Marzo 2013

 
Pensieri sparsi dai colpi convulsi di un pennello in delirio

Pensieri sparsi dai colpi convulsi di un pennello in delirio

di Annunziata D’Alessio

Cosa dire quando a parlare è l’arte, "furia della figura" trasmutata in “versi”?!

S’impone il silenzio e l’ascolto diretto ad una voce trafelata, rinnegata, tortuosamente espressa per immagini e sensazioni d’insieme.

Il ”particolare” è là.

 L’artista lo vede ed è l’unico che può coglierlo.

Ma come? Dura un battito di ciglia. Ed è proprio qui “il tormento e l’estasi”!
Dunque Serra come Michelangelo?! Continua a profondere arte anche quando scrive?! L’uno dai colpi di pennello l’altro anche dai colpi di martello. Entrambi “manieristi” per quelle anafore e sinestesie che cadenzano il ritmo delle parole simili alla mano che si muove laboriosa su e giù, sospinta dall’inquietudine della propria opera.

Shakespeariano nella sostanza del contenuto, sia pure senza il dilemma amletico, (Serra è lapidario; pronuncia un enfatico: "Voglio morire!"). E vaneggia ma non vacilla.

 Omerico perché epico nella forza titanica dello stile, ridondante nelle evocazioni di senso.

Picassiano nella struttura del testo perché come Picasso smonta, non ha una composizione narrativa logica se non quella che nasce dalla sua personale visione.

Un groviglio emozionale – che è insieme esplosione plastica di impeto, suoni, colori, odori – parte dal sensismo di uno stato tutto umano e diviene tensione anelante nella ricerca metafisica di un “dove” e di un “perché” entro cui riposare.
…Ma caro Serra:

Ogni bene senza te, Signor, mi manca; il cangiar sorte e sol poter divino (Michelangelo,274,13-14).
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Commento a seguito di una mostra d’arte con lettura di un monologo del pittore Mario Serra, 07/03/2013.
 

 
Ab Iove principium (Virgilio, Egloghe, III, 60)

Un insigne antenato

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La bambina con le trecce sciolte

Racconto per mio figlio

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La proposta letteraria molisana fra Roma e Torino

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Racconto fresco di stampa

Vedi articolo del Quotidiano del Molise

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Quotidiano del Molise[ ]3934 Kb
 
E la montagna attende

Quale prezioso segreto rivelano quei monti?
Gloria e dolore più che io possa dire:
terra che desta un solo cuore al sentimento
può accentrare in sé cielo e inferno.(E. Bronte, 188)

E la montagna attende

di Annunziata D’Alessio

Hanno qualcosa di divino le nostre montagne: forse è il fascino che viene dall’incontaminato, da una mano dell’uomo, se non assente, ancora pressoché incerta e discreta.
Chi abita i monti ama le sue creature e come figli si preoccupa e spera per  il loro avvenire.
C’è qualcosa nella natura che me la fa sentire amica più dell’uomo stesso: sarà per  quel  suo  essere  senza  nessuno  sforzo, senza fatica, nessuna pretesa.
Sta lì e si compiace del suo solo esistere, quasi stesse immobile per noi, per il nostro  puro  piacere, simile ad  un quadro del  Monet, ad una scultura di Michelangelo, ad un’ opera d’arte che si  lascia austera contemplare ed ammirare in religioso silenzio.
Un dono di Dio dunque! Un dono fatto all’uomo e alla sua intelligenza perché ne godesse.
Eppure non tutti colgono il fascino misterioso della montagna, il suo cuore generoso  che  pulsa  di  sinergie  che diventano la tua forza quando l’attraversi e ti fondi con la terra che calpesti.
La Natura è un tempio ove incerte parole mormorano pilastri che son vivi (...) Come echi che a lungo e da lontano tendono a un’ unità profonda e buia, grande come le tenebre o la luce, i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi.
Charles Baudelaire, nella celebre raccolta di poesie I fiori del male, descrive in questi termini l’universo naturale che circonda l’uomo, racconta di una  foresta  di  simboli da captare e decodificare per  cogliere i significati celati, le infinite corrispondenze tra il visibile e l’invisibile, tra la materia e lo spirito. Un mondo nel mondo in cui l’uomo potrà avere accesso solo abbattendo il confine dei cinque sensi e guardando la natura con occhi nuovi.
C’è qualcosa di sacro, addirittura di mistico in quel suo essere semplicemente per essere. Una pienezza così appagante ed assoluta che non può non condurti a Dio, lo stesso Dio che incontrò Petrarca  nella sua scalata al  monte Ventoso.
La natura ti parla, ti bisbiglia il segreto della vita e mentre ti sussurra t’incanta.
Da ragazzina pensavo che le montagne di vedetta, frontali al mio paese, m’avessero stregata. Non riuscivo mai a stargli troppo tempo lontana, non avvertivo la minima esigenza di esplorare altro  né  di cercare altrove e la distanza a volte si faceva insopportabile. Portarmi via dai miei monti era come strapparmi l’anima.
Oggi so che quella voce era reale, non la suggestione di una favola. E’ il richiamo della montagna che appartiene  a  questa  terra  dolente, la terra dei miei nonni, vissuta per generazioni del sudore, del sacrificio della povera gente, china sotto il sole con il volto riverso sui campi e la speranza  alta nel cielo di un futuro di riscatto. Una terra che, da quei canti della  mietitura, ancora va cercando la sua fortuna senza mai trovarla. Una terra, la nostra regione, che sembra vivere di soli progetti, di promesse che diventano ogni volta iniziative, primi  passi verso qualcosa  che  non  prende mai  forma, non acquista  mai  consistenza,  esaurendosi  nella  sola  idea  del  fare,  in  uno slancio senza decollo.
Credo che come il successo di un individuo dipenda innanzitutto dalla capacità di riconoscere se stesso e di maturare un’ identità, così ritengo che per un luogo e il suo  futuro  valga  la  stessa  legge.  Eppure, la montagna… : quanto appartiene di più alla storia, alla cultura, al  paesaggio  di  questo  nostro  Molise  è  ciò  che  sembriamo  ignorare maggiormente. Fonte di  ricchezza  per  la  sua  bellezza,  sorgente  di benessere per  il  piacere  che  racchiude  in sé,  musa  ispiratrice  di  poeti, pittori,  scrittori  d’ogni  sorta,  rischia  di  restare  anonima  presenza, una macchia di colore dal potenziale inespresso.
In questa estate da poco trascorsa, si è tanto parlato di un presunto rilancio del Molise, fondato su una cultura del turismo che promette di essere questa volta più che mai intraprendente e consapevole dei propri mezzi, per un’ ascesa da compiersi, fra monti e pianure, in groppa al nostro puro sangue doc, Campitello Matese. Un supplemento allegato ad un numero di fine Luglio del quotidiano  IL  Tempo , esordiva  con “ La scalata del nuovo Molise” e ancora “Metamorfosi di una regione , ora il Molise si dà al turismo”. Verrebbe quasi da gridare: - EUREKA ! Finalmente, forse incominciano a guardarsi intorno…!
Si tratta di un progetto allettante ed ambizioso che potrebbe sul serio arrivare a dare un senso alla nostra regione, una sua collocazione, una ragion d’ essere, strappandola  da mortificanti definizioni che riducono il Molise a “paradosso della geografia e della storia”, “ …un mondo morto persino per le carte geografiche”. Più che di un progetto, dunque, parlerei di una sfida o addirittura di un debito da assolversi verso una terra che ci ha dato i natali, ci ha sfamato e oggi rivendica il diritto  di  vivere ed essere riconosciuta.  Ma è un sogno che nasce sulle amare pendici di un angolo del mondo dal passato difficile, ormai fossilizzato in un confuso costume di vita, apparentemente emancipato, che lo sta conducendo verso una sempre più rapida defraudazione di sé stesso. Ci si chiede da anni quale sia la strada giusta per il Molise, ostinandosi a non considerare che il Molise ha in sé la sua risposta, nella strada tracciata dentro il solco delle vallate, nei sentieri montani che  ci guidano  sino  in  cima  alle  loro vette. Il nostro punto d’arrivo va ricercato nel nostro punto  di partenza. Non può esserci successo se non si capisce di dover preservare gli aspetti peculiari che appartengono all’identità storica. Realizzare qualcosa di vacuo o fasullo non è impresa ardua: è sufficiente abbozzare, accennare e posso  sembrare ciò che voglio. Il difficile è produrre una continuità d’azione coerente e costante nel tempo, mirata a sfatare l’ immagine di un popolo avvezzo a dare solo l’idea , la parvenza della realtà,  brutta copia della verità, in uno scenario illusorio e fittizio, potenziato da una congiura del silenzio in cui tutto, anche lo scempio peggiore, diventa lecito , legittimato  di fronte all’ignavia dei politici e all’indifferenza dei cittadini. Di conseguenza c’è una domanda che andrebbe fatta senza mezzi termini: vogliamo dare l’impressione  di una regione a recezione turistica o vogliamo esserlo per davvero? Nel caso della seconda e più sensata delle ipotesi, diventa  chiaro e direi automatico che pale eoliche, aeroporti ed affini, che sembrano aleggiare incombenti non dissimili da spettri sulle nostre teste, non possano trovare spazio in un bucolico paesaggio di arcadica memoria. Toccare la natura, soffocarla nella sua espressione significa disturbare la forza divina che risiede in essa, quella che gli antichi greci identificavano con Pan: l’ incarnazione della vitalità, di un’ esuberanza che s’impone prepotente al mondo, con tutta l’ energia di chi trabocca di piacere, inebetito d’ aria, soggiogato da una sovrumana ebbrezza, ma al contempo simbolo di una brutalità selvaggia, di un istinto primordiale che lo rende presenza oscura e minacciosa. Non vorremmo dunque certo suscitare l’ira di Pan?! Ed è proprio per scongiurare ogni sua contrarietà che s’impone un dettame inviolabile: crearsi delle coordinate, una mappa d’azione che ci impedisca di uscire fuori rotta, che ci tenga negli argini di un buon senso comune, del rispetto di ciò che ci circonda, aiutati da una politica del lavoro in grado di escludere a priori ogni forma di cultura dell’ approssimazione, sterile  figlia della mediocrità , tipica di un ambiente chiuso e avvizzito nel suo provincialismo.
Intanto su questa scia, l’11, il 12 ed il 13 Luglio, si sarebbe dovuta tenere su Campitello Matese “la festa della montagna”, mandata  a  rotoli dai  problemi  in  seno  alla Regione per l’ improvvisa caduta della Giunta. Sarebbero state, immagino, giornate come tante già vissute, organizzate secondo i crismi dello stile locale: all’ insegna  del  godereccio  fra prelibatezze e leccornie degne dei migliori buon  gustai, per  chi  ama i  grandi  spazi verdi e stare all’ aria aperta. Ma…tutto qua, abbiate fede, non avreste trovato altro! Insomma, vi sarebbe stata rifilata  la  solita  abbuffata  folcloristica, l’ennesimo diversivo da autentici montanari, fra i tanti svaghi estivi messi  su  per  ingannare  il  tempo, paghi  di  vino  e musichetta.
A volte penso che qui da noi non si riesca a produrre altro che cibo. Ogni occasione sembra quella giusta per saziare lo stomaco come se cervello e pancia fossero legati a filo doppio; ma con  la  pancia  troppo piena  si  finisce  col  pensare  poco  e  male!  Il corpo entra  in  apatia, l’ interesse cala, l’entusiasmo si spegne. Forse è proprio questa la ragione del  nostro  inesorabile  procedere a ritmi  lenti, con un fare flemmatico, come cullati dalla voce della montagna.
Così mentre tutto tace e si lavora per partorire il prossimo aborto, sospesa fra cielo e  terra, la  montagna  ci guarda,  magari  severa  ci  rimprovera  e sospira.
Pare quasi che attenda! Ma cosa?
A me sembra…la sua sorte.
Per quanto mi riguarda, al di là di ciò che nelle più alte sfere si deciderà per il suo destino, vorrei che i monti conosciuti da bambina  rimanessero i luoghi visitati dalla fantasia dell’ infanzia:  boschi shakespeariani da Sogno di una notte di mezza estate, luogo di misteri, di smarrimenti  e d’incanti, regno delle fate, dei tanti Puck maliziosi, covo dei loro intrighi, laboratorio di filtri magici e potenti pozioni, dove tutto è possibile, anche dare  lustro ad una terra desolata come la nostra.

Pubblicato su Il bene comune, rivista di arte, cultura e civiltà del Terzo Millennio, 2003.                                                                       

 

 
Bellezza e progresso

Quali iniziative promuovereste per la tutela e lo sviluppo della cultura italiana?
L’equo punto di vista di una insegnante di Lettere del centro Italia.

Bellezza e progresso. Due volti di un unico paese in bilico

di Annunziata D’Alessio

Se è vero, stando a quanto dice lo scrittore inglese Chesterton, che “il mondo perirà per la mancanza di meraviglia, non di meraviglie”, beh, questo mi fa pensare solo a due cose. La prima è che il nostro Paese è sicuramente un giardino di meraviglie, ma la seconda è che proprio gli italiani che lo popolano sono, fra gli abitanti di questo pianeta, quelli che maggiormente sembrano aver dimenticato la bellezza e l’origine di essa.
Per tutelare o potenziare un valore bisogna innanzitutto conoscerlo per poi riconoscerlo. Come è possibile compiere questa naturale manovra in un Paese sempre più anodino, intriso di un’ artificiosa superficialità?!
L’Italia, all’alba di un dopoguerra disastroso, è rimontata, fenice rinata dalle sue stesse ceneri, rimettendosi in lizza tra le principali potenze economiche. La varata è stata possibile non certo in virtù di un presunto potenziale interno, politico, industriale, amministrativo, praticamente gestante a vita, ma bensì grazie al dono di un’avvenenza incorporata nel tessuto della storia, dell’arte delle sue città. Da nord a sud, Torino, Milano, Parma, Firenze, Siena, Venezia, Roma, Napoli e Palermo, da secoli non sono punte di diamante per le loro infrastrutture carenti. E’ il loro ricco patrimonio d’incomparabili tesori a fare la differenza.
Nel nostro tempo moderno, confuso e disorientato, c’è bisogno di un nuovo inizio; potremmo, allora, ripartire dalla tanto agognata quanto bistrattata cultura, ma nella convinzione che l’obiettivo strategico debba essere quello di una società solidale nella laboriosità di un unico intento: saper fare per fare bene.
Non si riuscirà a salvare la cultura italiana se non partendo, paradossalmente, dalla cultura stessa. E’ questa la matrice! E’ tutto qui il bandolo della matassa!
Non ci saranno politiche soddisfacenti: economiche, amministrative, sindacali, ambientali, in qualunque salsa proposta, se continuerà a mancare la struttura portante di un programma culturale serio.
Sì serio! Dove la cultura con i suoi addetti ai lavori: docenti, scuole, università, non sia puro infingimento.
Credo che il dibattito pubblico di questo Paese allo strenuo delle forze si avviti  intorno ad un inganno che è ormai retorica: le cause della grave crisi italiana sarà possibile superarle dando nuovo impulso ai consumi e alla crescita.
…. Ma ai consumi e alla crescita di cosa? Io, interpellata, risponderei con una risposta che le comprende tutte: della cultura!
Nel quadro d’importanti iniziative di sviluppo non si può prescindere da essa.
Al riguardo potrei indugiare su ampollose dissertazioni concernenti le possibili iniziative da intraprendere per realizzare di più in ambito culturale o per impedire altre “fortuite” dissacrazioni. In realtà vorrei evitare di cadere nel banale e citare l’ovvio, sproloquiato da supponenti e sofisti del nostro tempo, secondo cui l’Istituto Italiano di Cultura dovrebbe avere come principale obiettivo il rafforzamento delle relazioni culturali con l’estero. La convinzione radicata, che infatti imperversa nei teoremi omologati di chi muove i fili della nostra società, è che per incrementare la cultura italiana ci debba essere intraprendenza, slancio, proposte, attraverso:
-organizzazioni ed eventi nei diversi campi (teatro, cinema, musica, danza, arte, letteratura, scienza ) ad ampio respiro
- contatti con enti e personalità esteri, allo scopo di diffondere una conoscenza completa e variegata della nostra cultura
- collaborazioni garantite di studio fra italiani e stranieri nelle loro attività di ricerca
-scambio di visite di docenti e operatori di settore specializzati
-promozione della lingua italiana
-assegnazione di borse di studio e…bla bla bla!!!
Purtroppo per quanto lodevoli e lungimiranti siano progetti ed intenzioni, non accordo il mio pieno, personale plauso.
Non basta fare per fare bene!
Saranno le nuove classi dirigenti, preparate in modo adeguato sulla linea di una logica sensibile di un’antica cultura classica, ad impedire alla nostra Italia che annaspa di affondare del tutto.
Fare cultura non significa solo produrre cultura, ma capire nel senso dell’inscindibile binomio greco: kalòs kai agathòs, i pericolosi meccanismi di mercato e usarli, senza essere usati.
Quando una società rinuncia alla ”bellezza” per ripiegare sulle esigenze contingenti di guadagno, calcolo, edonistico piacere, vuol dire che è ormai condannata alla capitolazione.
Educare alla bellezza non è soltanto un fatto estetico è indice di un senno etico.
Ancora oggi una civiltà, una classe politica può essere misurata nel suo valore di grandezza in base ai prodotti artistici che ha lasciato in eredità. Un popolo non ha prospettive di successo se non impara ad affinare l’ingegno, a perseguire la moralità e a ricercare la bellezza. Tre componenti indispensabili all’oggettivazione di qualunque cultura.
Partiamo, dunque, dai nostri giovani, da una loro rigorosa preparazione, perché siano in grado domani di distinguere tra risorse industriali autentiche, capannoni industriali improvvisati, brutte copie di ville palladiane, formandoli all’interno di una riflessione tutta giocata sulla giusta distinzione fra antico e moderno, bello e funzionale.
Solo in questo modo difenderemo la cultura italiana dalla sua minaccia più grande: i barbari autoctoni.
 

 

 
Quante volte hai guardato al cielo...?!

Dall’altezza di ”millimetri”:

il cielo d'inverno


Quante volte hai guardato al cielo…?!

di Annunziata D’Alessio


Quante volte hai guardato il cielo, manoscitto, Per migliaia di anni l’uomo ha rivolto lo sguardo in alto. Ha scrutato il cielo, si è interrogato sulla sua immensità. Ha sognato davanti allo spettacolo strabiliante della volta celeste notturna e si è sentito a volte piccolo, un niente nell’immensità dell’universo, altre volte un re, padrone di una bellezza vitale che se riesci a sentirla prima che a vederla ti strega, ti cattura e ti soggioga a sé.
Ma è così ancora oggi?
Ci lasciamo ancora incantare?
Gli impegni inderogabili, gli appuntamenti frenetici, il dovere prima del piacere ci hanno anestetizzati fino ad annullare la nostra volontà.
Siamo rimasti forse davvero in pochi a guardare il cielo.
Mio padre è uno di questi pochi privilegiati! Da lui, che mi ha insegnato buona parte delle cose che so, ho appreso anche la curiosità di frugare fra le stelle.
Per sapere qualcosa in più, ma soprattutto per godere di qualcosa in più…!
E’ facile che un sentimento di delusione investa chi si accosti la prima volta all’astronomia, nel momento in cui verifica la scarsa somiglianza evidente fra le costellazioni e i personaggi che ne conferiscono il nome.
Questo accade se si pensa in modo schematico!
In realtà le figure delle costellazioni sono innanzitutto figlie della capacità immaginifica dell’uomo. Devono essere, pertanto, intese simbolicamente, come allegorie, e il cielo stellato come un grande foglio sul quale tracciare i contorni della propria fantasia: siano esse proiezioni di divinità, eroi o animali.
Una motivazione pratica di questa antica esigenza va ricercata nel fatto che navigatori, contadini, pellegrini avevano la necessità di interpretare il cielo per i loro bisogni contingenti. Ma la spiegazione che a me piace dare è che c’è stato un tempo in cui il lirismo dell’uomo era tanto e tale da coinvolgere tutto il creato. E così nomi, forme e versi ispirati hanno permesso di fugare le tenebre della notte, traducendo la paura in sogno e l’immaginazione umana in una eredità per i posteri.
Solo in Grecia, dove tutte le poesie della vita e del mondo hanno avuto inizio, si poteva pensare alle stelle in una dimensione che trascende la spicciola definizione di corpo celeste e andare oltre, verso la ricerca del sublime. Platone e gli Stoici concepivano le stelle nella misura di “creature viventi, ma di un genere interamente spirituale…”
In effetti, l’identificazione delle stelle con gli angeli pare trapeli da molti scritti biblici o della letteratura giudaica e non urta con il familiare racconto cristiano di una fulgida stella* che guidò i Magi alla capanna di Gesù.
Matteo nel suo Vangelo (2, 1-12) ci dà una precisa informazione in questo senso.
Tanto pur vero, però, è che talvolta testi pagani si sono fatti depositari documentari delle tracce di una stella vate, foriera di una qualche profezia o dell’investitura divina di personaggi illustri.
Fu Enea ad essere condotto, durante la sua fuga in mare da Troia in fiamme, sulle sponde italiche dal materno pianeta Venere e fu sempre l’apparizione di un astro (Tu , oh casta Lucina,) a vaticinare la salita al trono di Augusto, preannunciata nella IV egloga di Virgilio.
Spesso nell’antichità dal cielo giungevano ispirazioni, rivelazioni, segnali sintomatici per le sorti dell’umanità.
Sulla veridicità della cometa* a Betlemme molto si è discusso e sebbene scettici, scienziati, cavillosi impenitenti tanto si affaticassero, da tempi immemorabili, a confutare la straordinarietà dell’evento, il particolare di una stella luminosa dalla lunga coda, disegnata per la prima volta da Giotto nella celebre Adorazione dei Magi presso la Cappella degli Scrovegni a Padova nel 1301, è sopravvissuto nei secoli ed è arrivato sino a noi come icona indissolubile del presepe di ogni Natale.
Certo, in queste nostre serate di dicembre, non credo sia altrettanto facile assistere allo stesso “miracolo” d’allora, ma…Se non avete troppo freddo, vorrei comunque invitarvi a fare quattro passi, passeggiando fra le stelle nel cielo d’inverno.
Ne avete voglia?
Supponiamo che diciate di sì!
Seguitemi e fate attenzione. Potreste perdervi nello spazio!
Tranquilli! Non vi chiederò niente di più necessario dei punti cardinali. Niente calcoli cervellotici, niente proiezioni labirintiche. Nessuna mappa, astrolabio, binocolo o telescopio.
Io stessa non sono che una principiante! Sfornita di mezzi, infarcita di emozioni e appena appena infarinata di nozioni base. Vi chiederò solo la disponibilità a recarvi in un punto appartato, lontano da fonti d’inquinamento luminoso e di alzare il naso all’in su.
Gli astri che proporrò saranno facilmente visibili ad occhio nudo.
Bene. Da dove partiamo?
Partiamo dalla nostra galassia. Quella di cui facciamo parte e che ci contiene: la Via Lattea. La striscia bianca spalmata in cielo da nord-est a sud-ovest, formatasi, secondo la mitologia classica, da uno spruzzo violento di latte fuoriuscito dal seno di Era mentre allattava Eracle e che risulta, in astronomia, costituita da miriadi di stelle fitte, splendenti, ma lontanissime. Conoscerla nella sua composizione sarebbe per noi impresa assai difficile, perché il punto di vista è tutto interno. E’ come trovarsi nel bel mezzo di una folla. Dovremmo uscire da essa e sovrastarla per avere una visione completa e corretta. Cominciamo, dunque, per semplificare l’approccio con l’abc delle costellazioni, fra le più note e visibili tutto l’anno: l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore. La prima, famosa anche nell’accezione di Gran Carro, si può individuare orientandosi verso nord- ovest. Si presenta nella forma di un rettangolo con una coda alta a sinistra .
Questa coda penzolone o timone ricurvo sembra faccia da freccia indicatrice, puntando dritto nella direzione di Arturo. Protagonista di appuntamenti estivi, non si può evitare di menzionarla! Arturo è la quarta stella per luminosità, una gigante rossa, 24 volte più grande del Sole. Fa parte della costellazione del Boote (o Bovaro) ed è riconoscibile proprio per il suo colore rosso-arancio.
Per rintracciare, invece, l’Orsa Minore bisognerà congiungere le due stelle di destra del Gran Carro e salendo, curvare leggermente sempre verso destra con una linea ideale. A questo punto la prima stella più brillante che incontrerete sarà la Polare, faro all’estremità del Piccolo Carro. Quest’ultima gode, tuttavia, di una fama che non ha! Non è infatti la Stella Polare a detenere il primato di star indiscussa del firmamento notturno, bensì Sirio della costellazione del Cane Maggiore.
Canis Maior, Canis Minor, Toro, Gemelli ed Auriga sono loro le costellazioni gloriose tipicamente invernali.
La chiave, ad ogni modo, per leggere il cielo della stagione fredda è Orione. In mitologia, l’audace cacciatore che si vantava di poter uccidere qualunque animale esistente al mondo e che la terra punì procacciandogli la morte con una piccola puntura di scorpione. In astronomia, il passe-partout per accedere ad altre stelle.
La sua costellazione, bella ed imperante a sud, ricorda l’uomo maestoso che fu ed è una delle più semplici da riconoscere e osservare. Contiene alcune stelle principali del panorama celeste: Betelgeuse, Bellatrix, Rigel. Ha la forma caratteristica di una clessidra, con un allineamento al centro di tre stelle di circa pari intensità luminosa, passato alla storia nella definizione di Cintura di Orione. Betelgeuse sopra a sinistra e Bellatrix a destra rappresentano le spalle del gigante, mentre Saiph in basso a sinistra e Rigel a destra i piedi. Queste quattro stelle insieme costituiscono un quadrilatero che ci dà la sagoma del cacciatore.
Fatta questa premessa, stendendo una linea immaginaria proprio dalla Cintura in direzione sud-ovest, ci s’imbatte nella bianca sfavillante Sirio e verso nord-est in Aldebaràn, la fiammante diva della costellazione del Toro, a cui appartengono anche le Pleiadi: denso ammasso stellare blu e bianco di grande effetto per la resa brillante che ha. Il loro mito è avvolto da mille leggende, ma una delle versioni greche più accreditate racconta che fossero sette sorelle figlie di Altlante, il gigante che porta sulle spalle il peso del mondo, e ninfe della montagna (Oreadi), vergini ancelle di Artemide, dea della caccia. Insidiate di continuo dal cacciatore Orione, che le inseguiva nei boschi, Zeus le soccorse ponendole in cielo a magnificare il creato con il loro splendore.
Se ci soffermiamo ancora sulla clessidra di Orione e tracciamo un prolungamento da Bellatrix a Betelgeuse, ci verrà consegnato Procione, la più appariscente del Cane Minore.
Infine da una linea netta che parte da Rigel ed arriva oltre Betelgeuse si scoprono Castore e Polluce, le stelle dioscuri della costellazione dei Gemelli.
A sud dei Gemelli troviamo il delizioso Triangolo d’inverno, formato da tre astri già citati d’indiscutibile bellezza: Procione(Canis Minor), Betelgeuse (Orione), Sirio (Canis Maior).
Ma….ci siete ancora? Non vi siete persi per strada?!
Perché resta da esplorare l’Auriga!
Continuate a cercare, sbirciate nello spazio intorno ad Orione, nella parte sovrastante. Vi farà da richiamo irresistibile Capella, la sesta stella in ordine di grandezza luminosa che Tolomeo descrive sulla spalla destra del cocchiere. Capella nella mitologia rappresenta la capra Amaltea che nutrì Zeus neonato, lasciato sull’isola di Creta ed adagiata in seguito da lui nell’empireo mare in segno di gratitudine.
E poi….e poi…e poi…
Quanto ci sarebbe ancora da dire o da vedere, ma sperando di non avervi tediato, confuso né scoraggiato, con il cornu copiae del firmamento il nostro tour interstellare termina qui.
E….anche se San Gerolamo combatté l’idea che le stelle potessero essere angeli e nel 553 il secondo Concilio di Costantinopoli escluse categoricamente che pianeti e stelle fossero dotati di un’anima, rimane una certezza: la loro magia continua a far sospirare tutti quelli che quaggiù si ricordano di averne una.
Uhhh! Maaa…Maaaa…Un attimo!
Cos’è quel punto rosso accanto all’Orsa Maggiore?
No! Non è Arturo!
Si muove! Sta sfrecciando…
Che sia…
Bambini, imparate a guardare il cielo.
E’ da lì che parte ogni magia.
Anche l’inizio della vostra vita.

Pubblicato per Millemetri. Bimestrale di informazione, cultura, temi sociali, 2011.

*Nota: “Bright Star” incipit di una poesia del divino poeta inglese John Keats.

*Nota: L’ipotesi odierna più riconosciuta è che non si possa parlare di una reale stella cometa,
ma di una triplice congiunzione di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci verificatasi
nel 7 a. c.

DISEGNO della clessidra di Orione

 

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Fra passato e presente

Fra passato e presente: un tesoro per il nostro futuro

   di  Annunziata D’Alessio


Barone! Chi era costui?
Ebbene sì, forse è proprio questo il caso di andare a rievocare il celebre passo manzoniano, giocando con il suo adagio di apertura per mettere subito a fuoco quanto, troppo spesso, resti solo un vago ricordo, qualcosa di sfuggente e confuso, la memoria o la conoscenza che abbiamo della storia della nostra regione.
Chi era, allora, Giuseppe Barone?
Sarebbe poca cosa parlare di una personalità tanto eminente nei semplici termini di architetto, artista, maestro. Giuseppe Barone, nato a Baranello nel Marzo 1837, appartenente ad una ricca famiglia del tempo, va inserito nel firmamento dei molisani illustri in qualità di autentico mecenate. Non potrebbe essere definito diversamente un personaggio che ha votato la propria esistenza alla ricerca del bello in mero senso classico: non come puro fatto estetico, ma come fatto morale, per cui l’arte, immortalata nella sua involontaria condizione di procurare piacere, risponde ad una funzione tutta educativa e civile. È dunque al nostro corregionale, insignito di così nobili contenuti, che va il merito di aver realizzato una collezione privata di gran pregio. Sono circa millenovecento i reperti catalogati fra resti archeologici, oggettistica, ceramiche, maioliche, vasi di terre cotte, bronzi,  monete, quadri, libri:  pezzi di vario genere, d’inestimabile valore e di diversa provenienza. L’ingente patrimonio raccolto, preservatosi nel corso dei secoli e giunto integro sino a noi, costituisce oggi il tesoro del Museo di Baranello, donato al Comune nel lontano 1897 ed ospitato nell’ex Casa Comunale. La sua ricchezza è tale da consentirgli di essere menzionato, secondo una classificazione della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti (D.M. 15/09/1965), nell’elenco dei Musei minori non Statali come uno dei più degni d’interesse.
Al lettore incuriosito o al “ turista per caso”, ingenuo ed inconsapevole di tanta bellezza, difficilmente potrà risultare indifferente lo spettacolo che gli si  rivelerà dinanzi una volta giunto nei locali del tesoro. L’impatto con il contesto è notevole! La sensazione è di un tempo sospeso, di un’atmosfera immobile, come se quelle stanze fossero rimaste bloccate fra presente e passato, come incapsulate, ibernate per noi, per il piacere e la conoscenza delle generazioni future. Sebbene tutto possa sembrare messo lì alla rinfusa, quasi affastellato nelle eleganti vetrinette in stile d’epoca, senza alcun criterio d’insieme, ogni oggetto è restato intatto, non solo nella composizione, ma nella collocazione in cui fu posto e voluto dal Barone stesso. C’è, infatti, un doppio piano di esplorazione e di scoperta che si affaccia all’occhio clinico di un osservatore attento: la tangibile testimonianza di un materiale antichissimo, meravigliosamente trovato e custodito, ma anche la traccia del singolo gesto, dell’intimo pensiero, dell’intenzione che fu propria di chi concepì questa raccolta dandole forma ed ordine secondo il proprio desiderio. C’è, dunque, in quella vasta gamma di oggetti preziosi, qualcosa che va ben oltre il valore materiale e che appartiene allo spirito dell’uomo, adagiato in un gravoso silenzio come parte integrante dello stesso reperto. Calati in un’estemporanea scenografia, si stabilisce un filo sottile, una suggestiva corrispondenza di presenza ed assenza che fa venire voglia  di appartenere alla storia.
Tutto questo contribuisce a dare al Museo di Baranello un fascino ed una peculiarità che lo salva da quanto di più pericoloso ed insensato sembri circondarlo. Il Museo di Baranello, infatti, non va ricordato e segnalato solo per lo splendore che racchiude in sé, ma, suo malgrado, anche come l’ennesimo caso di mala-gestione di fondi e finanziamenti che riguardano lo sviluppo delle risorse locali. Da tempo, l’amministrazione comunale sta corteggiando gli Enti preposti affinché intervengano con un valido aiuto per affrontare e risolvere le due questioni ormai insostenibili.
Il primo problema, che si pone immediato e palese anche allo sguardo di un visitatore distratto, è quello della struttura-contenitore del tesoro: un palazzo antico, poco funzionale, penalizzato dalla scarsa agibilità dell’edificio che lo rende inadeguato allo scopo.
Il secondo problema, che s’impone impellente, è un’operazione che ad un primo sentire potrebbe risultare quasi sacrilega, un atto di manomissione che va a profanare la magia di uno stato rimasto inviolato per anni. In realtà, si tratta di un lavoro indispensabile che ha come finalità l’ardua impresa di riordinare, in una nuova sistemazione, tutto il materiale seguendo un criterio razionale e al contempo fedele ai propositi con cui il Barone aveva organizzato la sua collezione.
Sarebbe un’insana follia, senza ombra di giustificazione alcuna, lasciare queste problematiche irrisolte, andando peraltro a rafforzare e confermare l’idea pregiudizievole secondo cui la percezione del “nulla”, che il Sud dell’Italia ha ormai maturato, è talmente forte e così abituale da persistere vergognosamente indisturbata anche quando affiorano gioielli di un simile valore.


Pubblicato su Il bene comune, rivista di arte, cultura e civiltà per il Terzo Millennio.
 

 
...Ma quella folgore su San Pietro?!

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No. Non è la folgore de La tempesta del Giorgione, ma è pur sempre il segno di una “tempesta” (11Febbraio 2013).
La storia di sempre, fra l’uomo e Dio, che si ripete…! L’iconografia moderna di una società d’illusoria potenza, fatta da uomini e doganata dal suo Creatore.

Dunque, oggi la rappresentazione dell’enigma “ giorgioniano” raddoppia, ma il mistero rimane lo stesso del 1508 .
Due opere omnia, nel senso che ciascuna racchiude analogamente in sé tutte le possibili relazioni fra le umane cose e le cose del mondo, sotto la mano suprema del divino che tuona, palesa la sua presenza e  lascia l’uomo prostrato, confuso ed incapace (per il suo naturale stato) di comprendere l’inesplicabile.

Annunziata D’Alessio

 
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