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Dal Cinema al Molise. Come Povere Creature
Dal Cinema al Molise.
Come Povere creature
Un film per riflettere sulla confusione identitaria delle nostre povere realtà locali
di Annunziata D’Alessio
Cosa hanno oggi in comune i nostri fragili paesi, ormai perenni gestantinell’utero di Madre Natura, con “PoorThings” (“Povere Creature!”),la pellicola pluripremiata, complessa, ridondante, dal forte senso estetico e dall’intenso gusto narrativo, che sta spopolando nelle sale cinematografiche? Tutto o niente! Sarete voia stabilirlo. Per farlo viene facile attenersi ad una semplice equazione: i nostri poveri, piccoli Comuni stanno alla protagonista del film, Bella Baxter,e al suo scenario visionario così come lo scempio di ogni essere vivente può stare al suo miracolo. Il miracolo di cosa? Di sopravvivere a se stesso. Nella storia narrata al cinema e prima ancora dall’omonimo romanzo diAlasdair Gray, c’è una giovane donna chenella difficoltà estrema approda al suicidio. Uno scienziatopazzo ne recupera il corpo e ne esporta il cervello,ancora pulsante, del fetoche la donna portava in grembo, trapiantandolo in essa. Da qui una nuova creatura e una vita nuova: la scommessa di una prospettiva ambita o solo un abominio? La donna-bambina, rinata nel suo corpo adulto con l’intelligenza puerile di chi riscopre ogni cosa da capo, per la prima volta, è da vedersi come? Come l’ibrido sconcio di Mary Shelley, una Frankesteinal femminile, abusata e stravolta nella carne ma non nello spirito, che è puro, innocente e ancora incantato o più semplicemente l’orrido gioiello di una incensurata sperimentazione? E noi, piccole realtà molisane, cosa siamo? Chi siamo con le nostre cicatrici…,con i nostri PIP senza “piani”, le nostre pale eoliche senza vento, il nostro presunto aeroporto senza “ali” e i nostri continui “arrivi” venuti da lontanoper fondersi e confonderci sempre di più fra ragione e sentimento, in una confusione che non è al solito unicamente di ruoli e responsabilità, ma anche di un futuro possibile o solo sognato?! Siamo creature devastate nell’intimo.Il prodotto menomato dei nostri interventi “chirurgici” secondo una volontà di cambiamento che non significa scontatamente evoluzione. Come Bella, violata ma al tempo stesso protetta dal suo creatore, all’inizio resta chiusa, confinata e appare inadeguata al mondo circostante così i nostri remoti paesi, profanati e sfigurati dal loro demiurgo in terra, faticano a stare al passo con il mondo. Cosa salva Bella alla fine?La coscienza di sé. La spinta naturale a portare la sua anima lontano dalla sua dimora d’argilla per scoprirsi come creatura libera e capace di essere. La stessa forza vitale, gotica e grottesca, che da sempre si agita nel cuore indomito del Sannio, battuto da unapioggia di tempesta, e che lo rende ben altro che addomesticabile. Puro come l’oro o amaro come la cenere.
Su Il Giornale del Molise, Editoriale del 21.02.2024
Non solo "I tre giorni della merla"
Non solo I tre giorni della merla
di Annunziata D’Alessio*
Per onorare i giorni più freddi dell’anno un esercizio del cuore ma anche un esercizio di stile e di memoria attraverso il bene della vista
Su "Il Giornale del Molise" 25 gennaio 2024
I luoghi che abitiamo ai piedi delle nostre montagne sono luoghi duri, difficili che non fanno da guanciale ai sogni dell’animo umano. Sono da sempre più i luoghi naturali dei boschi, delle vallate, degli uccelli, delle volpi, un tempo lontano dei lupi e oggi dei cinghiali …insieme alla solitudine del cuore. Quella solitudine che se non si osa sondare si può però immaginare, fatta di “nuvole e fango”! Così mentre il rigido inverno incalza con lei, nei mesi di gennaio e febbraio il mio spirito si muove alla finestra e la vede alloggiare in giardino prima di me (…che in genere sopraggiungo più tardi sospinta da Zefiro!).
A dissolverne la forma e a mutarla da tomba in penisola sono i timidi sposi in livrea nera, piccoli protagonisti dal becco giallo di miti e leggende popolari: i merli e le merle di un racconto antico con lo spauracchio tradizionale dei loro tre giorni famigerati…Venuti fuori dai corridoi delle siepi disadorne, mi aiutano a riavvolgere il tempo dilatato nel buio dell’inverno. Li vedo lì, sono nel prato desolato simili a un pietoso miraggio, pronti per la loro danza, illuminati dalla fiaccola d’Imeneo.
Questo è il preciso periodo dell’anno in cui escono dal silenzio di piombo e cinti d’Afrodite si preparano all’amore fra cielo e terra, in un Eden che io ho la fortuna di dividere con loro come queste pagine che ho la gioia di condividere con voi, cari lettori, per farne altro di più: fango e nuvole pari a dire prosa e poesia in una pura dichiarazione d’intenti lungo il corso di un adagio tracciato dall’inchiostro.
*poetessa
A San Giuliano del Sannio l’epigrafe dedicata ad Angelo Zuccarelli
A San Giuliano del Sannio l’epigrafe dedicata ad Angelo Zuccarelli, illustre scienziato molisano, sotto la protezione dei Lari, dei Mani e dei Penati
Su "Il Giorane del Molise" 16 agosto 2023
L’11 agosto di questa pazzesca estate nel mio Comune di San Giuliano del Sannio si è organizzato un convegno sulle scienze: dall’illustre botanico, Nicola Antonio Pedicino, all’eminente medico psichiatra e antropologo, Angelo Zuccarelli.
Il modo di procedere nella gestione dell’evento è stato a tratti piuttosto anomalo, ma ciò che conta è che tutto sia andato a buon fine. L’idea tenuta nel cassetto da anni è passata da un’amministrazione comunale all’altra finché qualcuno ha deciso di attivarsi e il progetto è giunto a porto. Se è vero che l’identità è anche un fatto sociale vien da sé l’impossibilità a fare di questi momenti non solo un’occasione per i morti ma anche per i vivi. Non a caso il filosofo greco Epitteto da buono stoico diceva substine et abstine ossia “astenersi da tutto ciò che non è in proprio potere e sopportare quel che capita, poiché tutto ciò che accade è necessario e provvidenziale”. Gli insigni personaggi, dunque, chiamati in causa e sui quali si è andati a relazionare risultano essere di un tale calibro per cui si rendeva impensabile non rendere loro prima o poi un degno tributo. Le vite di N.A. Pedicino e di A. Zuccarelli potrebbero essere celebrate in tutti i manuali di scienze o di storia, citando Petrarca, come le Vite degli uomini illustri, questo perché con le loro vite hanno appunto dato luce al nostro piccolo Comune ma ancora di più alla storia, alla scienza, alla cultura molisana a cui appartengono. Nel caso specifico di A. Zuccarelli, lui è andato addirittura oltre, oltre i confini comunali, regionali, nazionali, oltre anche l’Europa, ha valicato l’oceano e i suoi studi sono arrivati fin negli Stati Uniti. Nel campo dell’antropologia criminale, insieme a Cesare Lombroso, prima suo maestro successivamente collega, è stato un pioniere, fondatore proprio della facoltà di antropologia criminale presso l’Università di Napoli, rappresentando ancora oggi un punto di riferimento per molti giovani che si avvicinano allo studio di questa disciplina.
Dal canto mio, come membro della famiglia Zuccarelli in loco, non posso non esserne orgogliosa dal momento che Angelo Zuccarelli è per me famiglia! Appartiene al mio albero genealogico, sia pure collocati su rami diversi. La sua casa natale, da cui è partito per portare avanti studi e carriera nella Napoli intellettuale, postunitaria, positivista e sperimentalista della seconda metà del 1800, è la casa dei miei nonni materni. Sorge come allora nella parte alta del paese e si è preservata nella veste di un documento storico architettonico, perché non essendo stata più abitata non ha dovuto adattarsi alle esigenze moderne così da non essere stata snaturata o stravolta. Anzi! Ad impreziosirla ulteriormente e a renderle omaggio è sopraggiunta una epigrafe dall’arredo straordinario, fortemente allusivo ed intrigante, ad opera dell’architetto Michele Losito e sviluppata nel corpo dettagliato del testo dal dottore Giuseppe Tiberio, con la solita cura che gli è propria. Dinanzi ad essa, la sera dell’11 agosto, nella cerimonia di “svelamento”, credo si sia compiuto un vero e proprio “rituale”che supera la sola componente civica o civile, facilmente riconoscibile, e la completa invece nel senso di una dimensione più ricercata, ancora più ampia, intima, intensa e profonda: quella del “sacro”. Nel mondo romano esisteva un vero e proprio culto, legato all’adorazione dei Lari, dei Mani e dei Penati, divinità preposte al culto degli antenati e poste a protezione della famiglia, il primo nucleo di una qualunque società. Un momento di Sacro Minore, di cui parla il paesologo tanto amato, Franco Arminio, nel suo ultimo libro o quella sacralità di cui parla da sempre Papa Francesco, quando dice che dobbiamo farci custodi del Creato. Nel momento in cui, infatti, ci siamo riuniti per una cerimonia di questo tipo, abbiamo attivato, più o meno consapevolmente o inconsapevolmente, qualcosa di veramente importante: la memoria o, più precisamente, la custodia della memoria, perche è qui che risiede la dimensione del sacro! E la memoria, certo, non va confusa con la leggerezza di un semplice ricordo, essendo una faccenda seria, ciò che ci riguarda più da vicino: è il fondamento della nostra esistenza, ci dice chi siamo.
Lo scrittore Mario Rigoni Stern riteneva che la memoria è determinante, nel senso etimologico del termine, è ciò che determina, che va a condizionare, ad influenzare tutto ciò che penseremo, diremo o faremo nel corso della nostra vita nel mondo. Pertanto, lui sosteneva che un uomo senza memoria è un uomo senza identità: “un pover‘uomo”! E così vien da sé che una comunità senza memoria rischia di essere una comunità senza identità!
Angelo Zuccarelli
Quindi l’11 agosto davanti a quelle epigrafi il mio San Giuliano ha cercato di scongiurare un triste destino. Tuttavia, sono profondamente convinta che il triste destino di paesi come San Giuliano, che non sono mai decollati e tuttora faticano a sopravvivere, vada ricercato proprio nel fatto che non si sia riusciti ancora a fare identità attraverso un percorso di memoria che non sia solo di retorica da facciata. L’identità non si risolve nel diversivo di un intrattenimento estivo (come siamo spesso abituati!) e neanche in un programma di continuità organizzato in date e solerti appuntamenti. Se fosse così semplice e tutto demandato alla buona volontà del “fare”, non staremo fermi all’angolo di una svolta, in corsa verso l’ineluttabile! Fermi alle bonarie intenzioni e alle loro migliori interpretazioni. Il tutto si complica perché necessita, per essere vero, di uno scatto in avanti rispetto a ciò che è sempre stato. E parafrasando l’altro illustre antenato della mia famiglia, il letterato Domenico Zuccarelli: “oggi che i dotti si moltiplicano spaventosamente (…) si perdoni a me questo tentativo“ di aiutare a sottrarre con la carta stampata i nostri piccoli paesi e i loro grandi personaggi al pericolo incombente di una damnatio memoriae.
Pertanto, ben vengano tutti i Gerry Calà del mondo o il Roby Fachinetti dei Pooh, a cui abbiamo dato addirittura la cittadinanza onoraria, ma un’altra cosa sono i nostri personaggi illustri…Sono un’altra cosa perché sono la nostra storia, la storia di quando c’era tutta un’altra storia.
Annunziata D’Alessio
DAD e nuovi mondi
Didattica a distanza e nuovi mondi. La testimonianza di chi vive l’insegnamento al tempo del Coronavirus
DAD e nuovi mondi
Su "Il Giornale del Molise"
La testimonianza di chi vive l’insegnamento al tempo del coronavirus sul fronte della scuola (I.C. D’Ovidio-Jovine)
di Annunziata D’Alessio
Sono ormai passati due mesi dal fatidico 5 marzo: chiusura scuole!E, Dio mio, quanto sono ancora provata!Mi sembra di aver camminato chilometri senza sosta, a piedi nudi e vestita di cenci…
E’ questo, infatti, il viaggio che ho intrapreso dentro di me! Un viaggio lungo, faticoso e, per alcuni aspetti, credo non concluso…Per me che allargo sempre tanto lo sguardo e scavo nel profondo, questi sono giorni particolarmente difficili.”Io era tra color che son sospesi” non è solo un celebre verso dantesco ma, anzi, una condizione di vita estremamente possibile proprio dentro l’apparente banalità della realtà, per chi ha conosciuto un dramma individuale di qualsiasi natura. Tuttavia, la pausa da limbo, che stiamo vivendo, è diversa da tutte le altre angosce!Sembra abitare “l’urlo“di Munch e, nel suo imponderabile, alterarsi, dilatarsi, avvolgerci in massa e risucchiarci in un’unica dimensione di distopia generale. Poi capita che mi ricordi di una rima, di un libro, di un concetto e allora lo sguardo si riempie di luce e la voragine di speranza. A settembre la scuola riparte! Ma con quali certezze?! Le uniche emerse fin qui e credo evidenti per tutti i miei amici-colleghi, compagni di ventura: la scoperta di nuovi mondi! La didattica a distanza o DAD, come abbiamo imparato a conoscerla in questi mesi, ci ha fatto approdare a nuovi lidi e trovare nuovi orizzonti per la “rivelazione” di una scuola nuova…da consegnare, si spera, a una umanità rinnovata! E’ questo, infatti, ciò che ha fatto il terribile virus, imperversando nel mondo: ha ermeticamente inscatolato fra le quattro mura di casa proprio tutti. In anima e corpo,poveri, ricchi, potenti, impotenti costretti a mettere in discussione quelli che ritenevamo i nostri punti di forza. Ed è qui che i castelli di sabbia tanto operosamente costruiti sono caduti in un soffio, lasciandoci soli con i nostri limiti dalle mille sfaccettature. Esistenze diverse, prigioniere blindate della loro immensa finitudo, sotto lo stesso cielo. Ognuno ha dovuto fare i conti con se stesso, con quelle scelte di vita che fino al 5 marzo 2020 avevamo interpretato benissimo agli occhi del mondo e che, invece, all’improvviso si sono rivelate fallaci. Ed è così che mentre indossavamo una mascherina per proteggerci, altre, ben più ingombranti, siamo stati costretti a tirarle giù…per guardare in faccia la realtà! E in questa realtà ci siamo ritrovati tutti, dal piccolo al grande cosmo: singole fragilità assalite da un’insolita quotidianità, coppie scoppiate nel panico della loro solitudine, famiglie colabrodo, la politica che tanto male ci governa, una sanità sottovalutata nelle sue precarietà ma al contempo serrata in flotte a frotte di esseri umani in camice bianco, vincolati dai loro giuramenti deontologici, capaci di trasformare professioni sottopagate in autentiche missioni sul campo, corpi civili e militari a disposizione, nei secoli fedeli alle vite altrui e in fine, sotto sotto, i poveri bistrattati insegnanti. Sì, ci siamo anche noi! E questa volta un po’, forse, più riconosciuti e amati! La scuola, infatti, nell’incubo dei mesi scorsi è riuscita a tenere duro di fronte al delirio come nessun’altra istituzione. Dirigenti e corpo docente di ogni ordine e grado, da regione a regione, hanno saputo tenere il timone. Tenace e volenterosa la Scuola tutta si è messa in gioco: dalla major storica per eccellenza del capoluogo molisano come la D’Ovidio a una junior ormai navigata come la Jovine. In particolare, l’ i.c. D’Ovidio è salito in cattedra, producendo il meglio di sé in fatto di competenza e professionalità: esperienza e innovazione digitale hanno viaggiato insieme sulla rete, incontrandosi in un interesse comune. L’alunno e il personale docente sono stati presi per mano lungo un percorso entro il quale sarebbe stato facile perdersi. Si è stati accompagnati e guidati, districandosi all’interno di un “far west” di pregiudizi generalizzati, supponenze e contrarietà a prescindere che troppo spesso sparano a zero sulla scuola. In realtà, seduta dietro i computer, da contorsionista improvvisata, la grande famiglia-scuola si è cimentata in acrobazie di ampliamento e allungamento metodologico. Fra prove e consigli tecnici, piovuti a tutte le ore, senza limiti né di spazio né di tempo, fra videolezioni e videoconferenze, non solo ha saputo mantenere la rotta dritta verso i ragazzi ma è stata in grado di avviare con loro addirittura un modo di fare lezione dove ciò che più ha contato non è stata una verifica sommativa del loro operato bensì la resa formativa che scaturisce da una componente fin troppo sottovalutata: la capacità di entrare in relazione! Si è aggrappata al necessario!Questo tipo di scuola si è rivelata per certi versi sorprendente, non scontata e di certo ferma sulla soglia della riflessione…prima di ripartire! Ma ripartire in che modo?! Intanto, non a mani nude, con le maniche rimboccate in una nebulosa di sicure incertezze, oppure, se Dio vorrà, con l’asso di spada in pugno del tanto agognato vaccino!La didattica virtuale è stata il “deus ex machina” in una fase di estrema emergenza, tuttavia sicurezza e presenza fisica restano le condizioni necessarie da recuperare in egual misura per ritornare a una educazione condivisa reale e non solo alternativa. Fortunatamente ancora non esiste una maieutica digitale capace di prescindere da un vero contatto allievo-maestro. Sarebbe davvero riduttivo e limitante per un’arte così grande! La questione scuola, dunque, occupa più che mai nell’agenda del Governo un posto di prioritaria importanza al pari di economia e sanità: fanno parte della stessa scommessa per il futuro. Ricordiamoci, come mi ha richiamato alla memoria una voce amica, che ogni crisi umanitaria ha la sua filosofia per ricominciare. E allora si potrebbe ripartire tutti da qui : “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me” (I. Kant, “Critica della ragion pratica”).
La scuola che verrà.
La scuola che verrà: è tempo di cambiare ed è tempo di crescere
di ANNUNZIATA D’ALESSIO
Da gennaio sono aperte le iscrizioni in tutte le scuole. Open day, uscite e incontri sono già da tempo partiti per promuovere il passaggio alla fase di formazione successiva. “E’ tempo di migrare” direbbe il poeta-vate. E’ tempo di orientamento, diciamo noi in un contesto diverso. E’ tempo di cambiare. Ed è tempo di crescere. Sono chiamati presto in piedi i nostri ragazzi a rispondere al primo appello importante della loro vita! Ma sono davvero pronti, consapevoli della loro natura, delle loro inclinazioni per poter scegliere in modo corretto la nuova scuola e con essa l’avvio alla formazione che ne verrà? Non sempre. E non tutti. Questo è il momento del percorso scolastico che vivo con più intensità, perché quando guardo i miei alunni della terza media, che per quell’anno mi sono stati affidati, non posso non rivedere me stessa fra i banchi e rifarmi piccola come loro che, mentre se ne stanno educati, composti, spesso stretti nelle spalle, in silenzio, cercano… Alcuni cercano con gli occhi grandi fermi su di te, altri con un’alzata di mano incerta a cui segue una domanda che ha lo stesso sapore di una preghiera: “Prof, voi che scuola avete scelto?”. Sono spesso smarriti e a volte ancora più confusi dopo aver parlato con compagni e docenti “affiliati” alle scuole più disparate. Ed è allora facile che si perdano! Ma questo non accade se vengono ricondotti a se stessi, alla loro unicità, a entrare in contatto con quella parte dell’essere che solo loro possono conoscere e ascoltare. E’ questo ciò che rende la loro scelta “personale”! O come dico loro: “intima “! Magari, in questa fase consegnarli per pochi minuti a Platone, alla sua poetica filosofia del mito di Ananke, raccontargli che prima della nascita la nostra anima si è fermata davanti al trono di Necessità e che questa ci ha consegnato un destino, il nostro destino, può aiutarli ad ancorarli a qualcosa, la cosa che più serve: la propria voce interiore! In greco si chiama daimon e c’è chi lo fa coincidere molto semplicemente con la coscienza, chi con il talento, chi con l’angelo custode a cui veniamo affidati alla nascita e che ci accompagna lungo tutto il percorso della nostra vita. Si agita dentro di noi sin dall’infanzia, ad alcuni si rivela subito con chiarezza, per altri meno, e continua ad agitarsi fin tanto che crescendo non gli diamo spazio. Può essere la nostra fortuna, ma se non lo riconosciamo, anche la nostra dannazione… In realtà, questo affascinante mito vale sempre la pena recuperarlo non solo per la destinazione che ci prospetta ma ancor più per l’humus che l’ha prodotto: la cultura classica. Non me ne vogliano le altre scuole, ma è, infatti, proprio il suo depositario “ufficiale”: il Liceo Classico, la scuola che consiglio indiscriminatamente quando quella mano si alza e la voce flebile fra i banchi fa la sua domanda. C’è, però, una sola condizione che pongo prima di fare il mio invito nel “simposio” delle scuole: si deve amare lo studio tout court, più di tutto il resto. Bisogna sapere quanto tempo si è disposti a sacrificare di gomito e di sedere. Quanto si è pronti a fare delle rinunce per dedicarsi a qualcosa di cui non si comprende ancora bene il senso ma che richiede abnegazione e fiducia. Solo così, nel silenzio e nel buio delle camerette, alla luce soffusa dell’ abasciur si avvierà un muto scambio di parole e pensieri che diventerà (se Dio vorrà!) modus vivendi. Sì! Perché è solo qui che si studia il greco: il greco antico, dove “antico” non sta, come direbbe un caro collega, per “superato” ma per “eterno”… E il segreto della vita, delle cose del mondo, de “l’amor che move il sole e l’altre stelle” e anche dell’ “amore che muove Omero e il mare” ce l’hanno solo loro: i Greci. Dei Greci mi sono innamorata subito, prima da bambina attraverso mio padre che mi portava sull’Olimpo con Esiodo a conoscere la Teogonia e a combattere la Titanomachia raccontata nei suoi libri sgualciti e ingialliti dal tempo e poi da adolescente al liceo, quando la conoscenza dello spigoloso aoristo mi faceva disperare ma mi consegnava lentamente, mio malgrado, a quella forza e tenacia che tanto mi sarebbero servite nella vita. L’incontro con il greco, infatti, può essere traumatico. Chi ne ha avuto esperienza, sa cosa intendo! Anzi l’aver condiviso quello stato di puro panico di fronte alla triste sorte di una versione in classe dal greco in italiano ci ha reso tutti “ fratelli” e “sorelle”, parte dello stesso destino o comunque membri elettivi di un singolare “circolo scipionico”. Eppure oggi so che comprendere e tradurre il greco non è affatto sterile meccanicismo, non ha a che fare solo con la nostra memoria per paradigmi e declinazioni, ma è militanza vera e propria verso la costruzione di noi stessi. Una palestra per lo spirito! Il greco ti si cuce addosso, diventa come un marchio a vita e ti rimane impresso come una seconda pelle, perché esso solo sa compiere quella straordinaria magia di trasformarti in qualche modo simile a lui, dandoti un’impronta unica di diversità assoluta rispetto agli altri. Avevo quattordici anni e come tutte le grandi passioni è stato un rapporto intenso, conflittuale ma con la promessa di fede del “per sempre…”. La ragione di tanto amore a me piace trovarla nella consapevolezza, acquisita proprio attraverso lo studio negli anni, che c’è stato un tempo in cui il lirismo dell’uomo era tanto e tale da coinvolgere tutto il creato, traducendolo in mito, versi, filosofia, tragedia, commedia, marmo, dall’alfa all’omega. La Grecia è il luogo dove tutte le “poesie” necessarie e non necessarie alla vita e al mondo hanno avuto inizio. Volente o nolente è inevitabile ancora oggi l’incontro con la cultura greca: dentro o fuori la scuola tutto ci riconduce ad essa! L’etimologia stessa delle parole ci demanda al greco. Del resto quale altra lingua ha la stessa precisione, pertinenza e calibro del greco antico?! Nella lingua greca non esiste solo il singolare o il plurale, c è anche il duale, frequente per indicare parti doppie del corpo: due gambe, due mani, due occhi, ma al contempo utile per riferirsi a coppie di oggetti o di persone, come gli amanti. Si arricchisce di un modo verbale a sé, l’ottativo, per esprimere il fremito del desiderio, ci sono accenti acuti e circonflessi, spiriti dolci e spiriti aspri, inoltre una parola, come ad esempio logos, può avere una doppia accezione e portarci a sottili differenze di senso. Studiare la lingua e la letteratura greca apre la mente, conferisce compostezza all’animo, educa alla ricerca, fornisce un metodo di lavoro, tempra, dà gli strumenti giusti per decodificare la realtà e goderne. Ed è solo al liceo classico che questo miracolo può essere ancora veramente possibile! In una società dove la cultura è sempre più svenduta, messa alla mercé di tutti, dove fioccano licei per tutte le “genialità” in potenza, l’unica e inimitabile finestra sulla bellezza del mondo rimane la “scuola di Socrate”. Si perde nella notte dei tempi la voce che annuncia il latino e il greco come lingue “morte” intese come inutili, pensando che la stima per i classici sia sopravvalutata e la fiducia nella scienza e nella tecnologia sia l’unica strada possibile per affrontare il futuro. In un tempo storico che sembra essere una sorta di contro-Rinascimento, queste rivelazioni appaiono più che mai scontate soprattutto se si considera la strada che abbiamo imboccato…! Una strada che vuole essere per i nostri figli sempre più comoda e agevole. Il problema, infatti, non credo sia quanto la lingua e le materie classiche possano essere attuali, ma quanto i nostri ragazzi ancora oggi siano in grado di “maneggiarle”. E’ una questione di disciplina! La verità è che come la cultura si è “allargata” così il suo livello si va abbassando e questo per dare a tutti l’illusione di un “sapere” che alla fine è solo parziale o settoriale. Tradurre un testo di più di duemila anni è letteralmente un’impresa che richiede tempo, devozione (non solo alla pagina scritta!), concentrazione, destrezza, capacità di coordinare la memoria della lingua con i possibili significati del contenuto, affinamento del proprio intuito e finezza nella resa stilistica del testo. Non sono da meno una serie di altre qualità come la capacità di astrazione, l’assemblamento delle idee, l’organizzazione degli appunti, la capacità sublime della sintesi fino a farne un dono. Stare ore su un testo antico di Livio o Tucidide, capire cosa voglia dirci, ti mette alla prova, sbatterci la testa ti costringe a misurarti… Ed è proprio questo il punto! Se vogliamo che la scuola faccia ancora la sua parte, e la faccia bene, dobbiamo pretendere di più dai nostri ragazzi e tirare su l’asticella… La difficoltà e la frustrazione sono chance che fanno parte del percorso di crescita. La risposta nel tempo si materializzerà nella costanza, nell’impegno, nella perseveranza, nella gioia della soddisfazione, nell’orgoglio di essere arrivati fino in fondo alla sfida e il premio sarà quello più ambito: l’attitudine alla vita.
Monte Mutria. La montagna sotto il cielo Il 18 agosto alle ore 7:00 i sentieri della montagna si aprono per noi come per Petrarca verso l’alta vetta
Esiste un posto abitato da rondini e coccinelle, dove l’aria è sopraffina e sembra che Dio stia respirando per te, per animarti… Sono così accarezzate da un fiato divino tutte le vette dei monti, ma di sicuro è grande e speciale, più di una carezza, l’afflato che mi avvolge abbracciandomi ogni estate su Mutria. Non lontano dal luogo dove“dimoro”, c’è una giornata consacrata a questo abbraccio, scelta non dal calendario della grande Chiesa, ma dalla sola volontà dell’uomo semplice. Comunemente la chiamano ”evento”(…per fare notizia!), tuttavia credo che davvero in pochi sappiano quanto quell’incontro in cima sia privilegiato. Una spedizione di anime, provenienti dai d’intorni d’ogni dove, parte nel primo mattino da Bocca della Selva (1.393m s.l.m.: quota del bar-rifugio montano) e con circa un’ora di cammino avvia la sua ascesa al Monte Mutria (1.823m s.l.m.), la terza cima più alta del Matese. Incoronato da sette groppe intervallate da prati, radure e lussureggianti faggete man mano che si scende di quota, accanto al Monte Gallinola (1.923m) e al Monte Miletto (2.050m), Mutria fa da sentinella e segna il confine fra Campania e Molise. L’aspetto straordinario dell’evento, che da quando ne ho conoscenza mi affascina e incuriosisce, è la sua “elaborazione” in un risvolto dalla dimensione spirituale. Svettata la vetta, infatti, a ritemprare i prodi scalatori in questa eccezionale occasione non troviamo solo panini e fiaschetto (… che seppur deliziandoci, vengono comunque dopo!!!) ma una sorta di adunanza che si compie intorno alla statua di Sant’Antonio, lassù posta dal 1993 e diventata meta di pellegrinaggio. Hic et nunc il momento di devozione viene sugellato dalla celebrazione della santa messa in un clima di celeste raccoglimento. Ed è miracolo! Scalo Monte Mutria con mio padre (…da uno dei suoi percorsi più ardui!) da quando avevo diciotto anni e ogni estate, durante la mia tradizionale salita al Monte, porto dentro di me le pagine della lettera più famosa all’interno dell’epistolario petrarchesco, in cui l’eccelso poeta descrive l’ascesa al Monte Ventoso. Petrarca sale arrancando e mentre il fratello Gherardo, che lo accompagna, avanza sereno e spedito, lui pare procedere (come nella vita!!!) tortuosamente, incontro a continui affanni. L’epistola, rivolta a Dionigi di Borgo San Sepolcro ⎼ frate agostiniano che pare avesse fatto dono al Petrarca di una copia delle “ Confessioni “ di Sant’Agostino, opera guida per le sue tribolazioni interiori ⎼ si risolve in un gigantesco climax strutturale del tutto funzionale ad un’allegoria densa di emozioni, dove concorrono a farsi breccia nel cuore del poeta diversi stati d’animo disposti a tracciare il solco per la sua morale. Il nostro Petrarca fu uomo difficile, profondamente segnato da un’eterna inquietudine, dalla centralità di un “io” sempre a metà fra gloria e vanità, salvezza e perdizione, logorato da un perenne dissidio tra il mondano e il divino, alla ricerca anelante di un riscatto rallentato sia dall’accidia della sua personale natura sia da una fragile visione della vita dell’Uomo, in cui vedeva ascritto il destino di noi tutti. La debolezza del Petrarca è facile coglierla, perché riguarda la nostra parte più umana: la paura e il desiderio, l’aspirazione e il vuoto, che si agitano nel cuore vulnerabile di ognuno. Soprattutto oggi, dove gli isterismi collettivi sono tanti, tutti diversi e meno riconoscibile di un tempo dentro i mille volti di falsi idoli dannatamente persuasivi. E allora quella scalata su Mutria, così come viene proposta nella sua insolita veste religiosa, può trasformarsi in una possibilità, evolversi in qualcosa di più rispetto alla comune, edonistica escursione fatta solo di sé. Può caricarsi di significato e assumere lo stesso valore che ebbe l’esperienza vissuta dal Petrarca sul Ventoso, dove l’ascesa al Monte diventa il simbolo di un faticoso cammino esistenziale verso l’autentico, una presa di coscienza individuale delle proprie fragilità, specchio di noi stessi, mezzo ideale per toccare le corde più intime, viaggio affascinante verso le più alte vette della…fede! Qui di seguito per voi riporto dalle Familiares una traduzione del testo in latino snellita con opportuni tagli: “Oggi spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. […] Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta che «l’ostinata fatica vince ogni cosa». […] Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle “ Confessioni “ di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio e testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi». Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello, che desiderava udire altro, di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di grande. Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi della mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa: quelle parole tormentavano il mio silenzio. Non potevo certo pensare che tutto fosse accaduto casualmente; sapevo anzi che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri”. Ed è così che Uomo, Dio, Natura e Letteratura naufragano dolcemente insieme in questo mare di pensieri, dove la mente si libera, il cuore non si spaura… ma si fa grande e noi diventiamo “nuovi”.
A grande richiesta, fino al 26 marzo, per la prima volta in Italia, a Roma presso l’Auditorium del Parco della Musica, la sorprendente mostra senza precedenti sull’arte del singolo mattoncino: “The Art of the Brick”. La materia prima della LEGO e la creatività di Nathan Sawaya insieme per realizzare una mostra che la CNN ha indicato fra le 10 al mondo da vedere.
Ha iniziato così Nathan Sawaya a fare l’artista: giocando da bambino!
E in realtà, a sentire il suo racconto, pare non abbia mai smesso. Dopo aver tentato una triste carriera da avvocato, sepolto sotto il peso di mille scartoffie, ha continuato quotidianamente a tornare da ciò che lo rende veramente felice: stare seduto sul pavimento e creare…come quando era piccolo. Con gli anni, crescendo sono cambiati i soggetti delle creazioni, ma curioso e unico è rimasto il materiale della sua arte.
Si tratta di comuni mattoncini da costruzione LEGO: compagni d’infanzia, semplici, colorati, ma diventati magici fra le sue mani.
Ed è così che negli studi di New York e Los Angeles, da affermato dottore in legge, ha abdicato ed è passato interamente alla sua passione di sempre, facendone la realizzazione di una vita felice.
Nathan Sawaya trae ispirazione da ogni cosa. Tutto intorno a lui sembra chiamarlo. Tutto il mondo è arte e ispirazione per la sua opera.
La mostra segue un percorso di contenuti ampio e variegato: si va dal preistorico, inossidabile T- Rex al surrealismo contemporaneo, passando per il classicismo rinascimentale e un realismo comparato. Una mostra dai grandi temi ma in una versione pop, accessibile a tutti! Una forma d’arte contemporanea, che strizza l’occhio a mamma e papà quando vanno a visitarla con il bimbo per mano, stupefatto e soddisfatto. Proviamo a immaginare un susseguirsi di piccoli spazi delimitati da un gioco di luci e ombre. Proviamo a farci guidare da un morbido sottofondo musicale al pianoforte e incominciamo virtualmente ad avanzare nella direzione tracciata da suono e colore. Ci siamo dentro! Ci muoviamo fra un milione di mattoncini. E allora proviamo a passeggiare tra le opere esposte e a tracciare con esse un percorso esistenziale. La galleria allestita da Nathan Sawaya suggerisce qualcosa di estremamente familiare per ognuno di noi.
L’uomo è colto in tutte le possibili condizioni della vita… A terra, carponi alla ricerca del primo “io”, quello infantile: ritrovarlo o recuperarlo per non perdersi”…! Titanico, come Atlante, per non essere schiacciato dal peso del mondo…!
Assediato… Sospeso.. Alla ricerca di uno snodo… In ginocchio o sgomento di fronte alla vita…
Annientato, disintegrato dalla vita stessa…
In altre “ finestre” lungo il percorso, il “mattoncino” è predisposto a edificare la storia nelle proporzioni statuarie dei grandi del passato e nelle profondità prospettiche di uno sfondo mozza fiato. “L’occhio vaga attraverso mondi di luce”, incontra la bellezza del mito e s’illumina.
Tanti gli incontri con l’arte d’autore per un contatto con il “divino”.
Seguite il consiglio della CNN sulla mostra che sta conquistando il globo e non perdetela!
Farsela scappare potrebbe indurre a una disperazione infinita…
All'istituto Manzoni il progetto "Il bello e la musica"
Dopo l’esperimento-esordio nel 2012 a Venezia, il progetto “Il bello e la musica” è tornato a far parlare di sé: lo sta facendo in Molise con tutto il valore di una iniziativa-evento. A goderne sono i nostri ragazzi nelle scuole.
Due note su contrappunti musicali, chiaroscuri della pittura e non solo…per rendere merito
alle scuole che ⎼ come l’Istituto Comprensivo Statale “A. Manzoni” (Cercemaggiore-Sepino) ⎼ hanno manifestato la disponibilità necessaria ad accogliere una proposta culturale fra le più innovative in Italia. Un progetto didattico-musicale ambizioso che promuove il benessere dello studente contemperando, nella sua formula completa, il piacere della musicoterapia, la messa in scena di rappresentazioni teatrali e l’educazione all’ascolto. Quest’ultima, nel particolare, presenta una virtuosa analisi di rapporto fra musica e arte, cercando di coglierne il sostrato comune nelle rispettive capacità evocative. Tutte attività legate da una logica circolare, quella del “bello” nei
suoi vari aspetti, in cui recuperare il concetto di bellezza significa avviare un percorso verso
il senso della stessa e la sua possibilità di tornare a essere espressione dell’umano sentire.
La nostra epoca per le scuole è l’epoca dei progetti: non si è mai avuta un’offerta formativa così ampia e diversificata. Esiste un progetto su ogni tema, gusto o interesse…Ma trattasi di vera “formazione” in campo?!
Schopenhauer diceva che la musica pura è una totalità e questa definizione consentirebbe di per sé
a un tale progetto di aprire la strada nella direzione d’infinite riflessioni sul mondo intero.
Singolare e coraggiosa la scelta della “Serenissima” di approdare con la sua iniziativa
⎼ intesa come arte della comunicazione ⎼ nella terra dei nostri Sanniti: popolo difficile, di rudi pastori, dalla storica fama guerriera, certo distante anni luce dalla sobria e nobile ratio romana,
che pose loro sotto il giogo della “civiltà”.
A distanza di secoli, pertanto, resta da chiedersi non quanto una proposta del genere possa darci,
ma semmai quanto le scuole di oggi siano in grado di approfittarne per lasciare spazio nelle classi a un’occasione: quella di guardarsi intorno e far cadere l’attenzione sul “brutto” che c’è!
Sono la mosca bianca che pensa nei termini di una formazione da maturarsi attraverso le materie che s’insegnano, al fine di tradurle in verità d’azione nell’uomo di ogni tempo. Quale il senso della letteratura, dell’arte, della musica, se non quello di ricordare ai nostri ragazzi che “ bellezza è verità e verità è bellezza”?! Se non ci preoccupiamo, a monte, di recuperare versi come questi per spiegarli calandoli nella realtà sociale, mettendoli poi in relazione con interventi didattici di analoga visione d’insieme, allora non chiediamoci perché non nascano ormai più altri Keats, Mozart o Schopenhauer …Il problema non è se nascono o meno, ma che non abbiamo più la sensibilità culturale per crescerli o peggio per riconoscerli.
A Rigopiano l’altro colore della neve raggela l’Italia e la unisce in uno scenario eccezionale di tragedia ed epico coraggio. Da lige umanista qual sono, di fronte allo spettacolo doloroso di questi giorni, colta da un palpito d’angoscia, ho cercato subito rifugio nel “senso” della letteratura. La mente prima ha compiuto rapidi giri su scottanti considerazioni scontate:
“…un altro Vajont?!” , “… ancora inadeguatezza e corruzione a braccetto?!”,”…è solo legge di natura? L’uomo ha fatto i suoi errori, la natura ha seguito il suo corso…”e così via fra un passaggio e l’altro. Ma se i pensieri galoppavano su un terreno sdrucciolevole, l’anima si dimenava per svincolarsi dalla sterile polemica e cercava un gancio… Allora come spesso accade in questi momenti di grigio senza sfumature, ho chiesto conforto alla memoria affidata a libri amici. Eppure mai come questa volta le mani guidate dai ricordi hanno faticato a ritrovare parole d’autore che esprimessero il silenzio della neve in un’accezione negativa, nel ruolo funesto della tragedia, fuori dall’amena poesia. La neve in letteratura pare consacrata solo ad una pura visione di soave piacere! “…fiocchi bianchi e leggeri”, “La neve…arriva senza fare rumore. Ha dita dolci, lievi e sottili che sfiorano senza toccare”, “…ha quell’alito di gioia…” ecc. Ogni verso appare stonato, fuori luogo, stridente con il lutto di Farindola. E tutto a un tratto la straordinarietà di un fiocco di neve, per cui non se ne trova in natura uno uguale all’altro, la passione di Wilson Benteley, che amava fotografarli e li chiamava “ snow blossoms" ( fiori di neve), ”miracle of little beauty” (miracolo di piccola bellezza) o l’esistenza di una “Guida ai fiocchi di neve”, se non mi disturba, mi lascia in una cupa sospensione… Io che ho sempre elevato la neve al di sopra delle passioni come una “lima” per i sensi:
“C’è quella pace serafica e palpabile che percepiamo soltanto quando nevica: quando una nevicata inattesa scende a scaldarci l’animo, avvolgendoci di una serenità inebriante che pare addirittura sia possibile, annusando l’aria, respirare il cielo mentre un candido manto si dispone a ricoprire ogni cosa.”(“Berenice in mezzo ai lupi. Racconto in tre atti”)
mi sorprendo nel disincanto. Questa volta fatico a scorgere in Natura qualcosa di sacro: è l’Uomo che ruba la scena! Lo stesso genere umano che ha reso possibile il disastro si riscatta con un pugno di anime che vanno a tentare il miracolo. Deve esserci qualcosa di soprannaturale in questi uomini che indossano gli sci nel buio della notte ad una temperatura al di sotto dello zero e, a testa bassa nella morsa del gelo, s’incamminano verso l’ ”altro”…Abbiamo sempre bisogno di cadere per ricordarci della “scintilla” che ci anima e ci salva. La tragedia fa da specchio, misura la nostra fragilità, ma in termini spinoziani anche la Sostanza divina di cui siamo fatti. Ci sono uomini capaci di rispondere all’appello incondizionato di una “chiamata” folle che li rende homo homini deus in un abisso infernale di ghiaccio, cemento e detriti senza certezze se non quelle delle loro rovine. E mentre le notti di lavoro si susseguono, le mie mani continuano a frugare fra le carte come le mani a Rigopiano continuano a scavare nella neve… e finalmente fra le righe sovviene una quartina ad aprire un varco alla speranza che resta: “Qualcosa è nascosto. Vai a cercarlo. Vai e guarda dietro i monti. Qualcosa è perso dietro i monti. Vai! E’ perso e aspetta te!” (R. Kipling).
Una preghiera.
Attualità, Il Giornale del Molise, 24.01.2017
Prof 2.0. La proposta editoriale-regalo per questo Natale
E’ la proposta-regalo per questo Natale, un libro su Leopardi: “L’arte di essere fragili”. In realtà l’invito a conoscere il libro in questione vuole essere prima di tutto l’invito a scoprire il suo autore: Alessandro D’Avenia. Non si concede che al nord, dove vive, Milano e dintorni, o all’estremo sud, Palermo, dove è nato, ma è il docente più famoso d’Italia. Per i ragazzi è il prof dei prof, per i colleghi è il prof che ognuno vorrebbe essere. A guardarlo appare simile a un cherubino con i suoi riccioli biondi, esile, quasi etereo, ma se dell’angelo ha qualcosa, questa è soprattutto la sua capacità esclusiva di portare la “buona novella”, l’ευ-αγγέλιονe- eu anghélion-l’evangelium:.. cioè il messaggio-rivelazione, che la rivoluzione nella scuola si può fare… E lui la sta facendo! Questo prof con la sua nuova proposta editoriale arriva in un mondo “seduto su una polveriera”, che è “G come Giungla”, nel quale “le favole sono dimenticate …, se non sei cacciato sei cacciatore…” e da dietro la cattedra, mentre tiene fra le mani le giovani menti dei futuri cittadini di domani, ci rivela che è necessario un cambiamento: non per sopravvivere ma per saper vivere… Lui rappresenta la giusta risposta alla Riforma della Buona Scuola, dove l’aggettivo “Buono” è vuoto se non recuperato dal greco e fuso in un tutt’uno con il più ampio concetto classico di “Bellezza”: altare di qualità interiori, che vanno ben al di là di un semplice, gradevole compiacimento della vista e dell’ascolto. Per i greci “Bello” era ciò che si misurava anche con la virtus, con l’humanitas, con una complessità di valori che conferivano a questo ideale un fondamento ontologico per poterne ricercare le espressioni in natura, fino all’uomo, il più sublime fra gli esseri naturali. Ed è questa la sfida per D’Avenia: fare della scuola un luogo “bello e buono”, in cui incontrare te stesso è possibile attraverso un prof 2.0, che ama ciò che fa e per questo è in grado di vederti e guidarti…Metodo sperimentato lungo il percorso di crescita? Solo ed esclusivamente i personaggi delle sue materie: Dante, Dostoevskij, Leopardi, ecc., con cui ti svela che “tu”, come loro, sei unico e che “nessuno potrebbe mai prendere il tuo posto “ perché “ciò che al mondo puoi fare, lo puoi fare solo tu (…)”.E’ il prof che parla alla tua anima, ti consegna a te stesso, ti da’ un posto su questa Terra, perché ti aiuta a cercarne il senso e, mentre lo fa, ti spinge verso le “stelle”, perché come direbbe lui, giocando con l’etimologia delle parole: ”un uomo senza le stelle è un uomo senza desiderio e di conseguenza senza destino”. Sarebbe una conquista potergli dire:” Caro prof, benvenuto anche in Molise!”
Se al cinema nei mesi scorsi era tornato l’olio di balena: antesignano del petrolio, l’oro nero venuto per primo a rischiarare le città, in piccole regioni come il Molise si preparano ad arrivare le trivelle petrolifere, a cui un referendum (previsto per il 17 aprile 2016) si accinge a fare da contro parte…
Dentro e fuori il grande schermo il “Dio denaro” continua ad avere il suo mercato.
Attualissima, infatti, per il nostro mondo era stata la nuova proposta cinematografica: “Heart of the sea”, che a tinte fosche, di vaga atmosfera ossianica, dal ritmo incalzante e dall’effetto inquietante, aveva visto al timone della regia una “beautiful mind“, Ron Howard, volto ad indagare le origini di quello che è considerato un caposaldo della grande letteratura, “Moby Dick”.
A dicembre si saliva a bordo della baleniera Essex e si avviava un viaggio coraggioso, solo apparentemente fuori o lontano da noi, perché in realtà a salpare sarebbe stata la nostra parte più profonda insieme a quelli che probabilmente furono i pensieri dello stesso Melville di fronte all’antefatto storico che costituì il prologo della sua Opera.
Siamo nell’inverno del 1820, in un’epoca passata, tuttavia il film ha avuto il gran pregio di riuscire magistralmente a toccare temi delicati come le relazioni interpersonali, le aberrazioni compiute per la sopravvivenza fino all’abominio, il rapporto sempiterno tormentato fra l’uomo, autoeletto a creatura suprema, e la natura, che non intende cedere al suo volere: tutto in una piega di addensato logorio introspettivo e psicologico da mantenerci in stretta connessione con le problematiche del tempo presente.
Al momento, dunque, le tematiche principali del classico di Melville ritornano più che mai appropriate con il loro peso di sempre, dall’avidità all’ingordigia, dalla crudeltà umana alla sfrenata sete di potere che sottomette ogni buon senso all’arroganza della presunzione: l’uomo che incalza ossessivo al cospetto della sovrumana forza di Madre Natura e pensa di poterla sfidare, superare e uscirne vittorioso.
In una fase storica particolare ⎼come quella che stiamo vivendo e in Europa innanzitutto ⎼
la rappresentazione di una ferocia umana e animale, messe l’una di fronte all’altra, assume il taglio di un’ intenzione quasi catartica. In effetti, le simbologie assegnate alla balena di Melville sono innumerevoli, ma riducendole ai minimi termini si può dire che essa incarna tutte le nostre paure, le più svariate, le più nascoste.
Senza dubbio rimane sulla stessa borderline Ron Howard, la cui balena si presta ad altrettante interpretazioni.
Da una parte, quella storica del circuito economico di armatori e industria, che le ruota intorno, dove la balena è vittima e quindi non diversa dagli uomini che le danno la caccia, a loro volta macinati dal tritacarne di un sistema-guadagno, concepito nella pura ottica affaristica del profitto. Per dirla tutta una lobby fra le tante! Uno di quei gruppi di pressione, di interesse economici e politici che detengono il potere, manipolano e controllano le società di oggi quanto di ieri.
Dall’altro canto, partendo dall’ispirazione di una storia vera, procedendo nella dimensione epica della sfida, attraverso cui l’uomo intende misurarsi affrontando i propri demoni, la balena incontra il Mito. Nel rapporto Uomo-Natura si sprigiona il conflitto generato non per mano della natura, inerme e maestosa, ma per opera dell’uomo che armato va a disturbarla. Ed ecco che i capitani Achab, Pollard e Chase, diventano i medesimi predatori di King Kong,
di Pegaso o in senso ancora più lato di Pan, il Dio della Natura per antonomasia, simbolo di una energia vitale che risiede in essa e non accetta di essere imbrigliata.
Pertanto, non è il “ mostro“ che cerca l’uomo, ma è l’uomo che si fa “mostro”, nella finzione artistica come sovente nella realtà. Allora forse per salvarci, per essere un po’ meno “mostri” dovremmo essere in grado di riprendere da questa storia e da tutta la sua vasta simbologia lo stesso insegnamento che ne trasse da ragazzo Abramo Lincoln, leggendo il capolavoro di Melville. “Noi siamo balenieri” affermò il Presidente americano (nuovo Achab, nuovo capitano!), quando in difesa di un sistema-Uomo, contro la schiavitù, guardava lontano, chiedeva con ostinata determinazione la ratifica del XIII emendamento e certo pensava a ben altri mari da valicare e a sfide d’altro genere…
Piccolo o grande che sia, vicino o lontano, ognuno ha il suo…
Delle cinque emozioni: Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto, messe in scena dalla Pixar sul grande schermo e che si dovrebbero sviluppare in modo equilibrato durante l’arco della nostra crescita, quale ha creato il black out nel fratello di Abele? In breve, nel “Quartier Generale” di Caino cosa è mancato tanto da rendere tutto distorto o ribaltato? E’ mancata la sesta emozione: Sorpresa. La stessa che la Pixar ⎼che ha prodotto la pellicola cinematografica più complessa del momento ⎼ha pensato di eliminare dal processo cognitivo ed emotivo della piccola protagonista, ritenendola troppo banale e per questa ragione omissibile. Eppure come può essere considerata banale l’emozione più affiliata alla smania di conoscenza propria dell’uomo, che ci riporta indietro sino a Ulisse e a quel senso del meraviglioso, che ci conturba e irretisce nella sensazionale misura descritta da Stendhal?! Forse per quegli stessi americani, figli “affamati” e “folli” del recente Steve Jobs, emblema della nuova Era, il prodotto Sorpresa sarà risultato semplicemente superfluo ai fini della trama e del suo bilanciamento… E deve essere andata proprio così, perché solo chi sa stupirsi sa amare…E l’amore (si sa!) è il motore del mondo. Caini sono, infatti, tutti quegli adulti che non hanno vissuto da bambini l’esperienza di essere raccolti e salvati, non maturando a loro volta il desiderio di raccogliere e salvare. Sono distanti da quel cireneo base, capace di accogliere la pluralità, contribuire alla trasformazione del mondo attraverso la propria, producendo in ogni luogo occasioni d’indagine, impegno, costruzione, volte a qualcosa di nuovo e unico. Participio passato sostantivato del verbo “sorprendere”, la “sorpresa” indica lo stupore, il cogliere all’improvviso, si riferisce alla cosa inaspettata. Non è da meno delle altre emozioni che sono tali proprio perché etimologicamente parlando derivano dal latino “emovere” (muovere da…), portando con sé la percezione di essere mossi da ciò che si prova, dal nostro interno. In senso traslato il verbo significa anche scuotere, sconvolgere e, in effetti, il fenomeno Sorpresa ha un effetto domino: sospinto dalla forza propulsiva dell’agire, superato lo stadio successivo dello sbigottimento, diventa combustibile che attiva la ricerca di un’azione e di una sua reazione, energia produttiva per chi ne fa il pensiero dominante all’interno di una comunità in crescita. Per essa conta la libertà dalla Paura, perché è questa a vincolarla, limitarla, quando invece è solo nella piena libertà che nasce la voglia di stupirsi per essere in grado di stupire. Fra le emozioni è quella che meno esige il controllo: ciò che vale è l’interesse della mente. Una mente capace di desiderio non ha paura di osare, agire, vivere. Risiede nell’immaginazione e si muove ansante verso un alfieriano: “Volli sempre volli, fortissimamente volli!”
Caino altro non è che il prodotto di un aborto: spontaneo o non, questo varia da caso a caso… L’unica certezza rimane la letterale aurea mediocritas di cui si è circondato e con cui si muove nel mondo da S.I. ormai identificato. Ad anamnesi effettuata e a cartella clinica ultimata, qual è, dunque, il profiler del Caino Medio? Quello che imperversa in ogni tempo e in ogni luogo? Mistificazione fallace di ogni umano stato? Il prototipo per eccellenza rimane la declinazione prossima di Giuda: l’altra faccia del bene, simbolo di un’umanità e di un umanesimo traditi. Il lato oscuro di chi si offre a strategie occulte per strumentalizzazioni personali: fedifrago dai mille volti, assediato da una debolezza di potere che lo candida a redentore in facili terre senza “Padre”. Sono loro, vicini e lontani, ⎼con un regno piccolo piccolo, minato di cinismo, autarchici e autoreferenziali ⎼i veri “padroni “ del mondo. Sono loro che hanno ridotto la sfera delle cinque emozioni a un cantuccio dove andare a morire. Sono loro che hanno fatto del narciso corvo di Esopo dei superbi pavoni da strapazzo, erigendoli a sistema garantito. E allora fra deviati e beoti chi salverà l’impopolare Abele? Chi custodirà la parte buona dell’umanità? Chi griderà: ” Nessuno tocchi Abele!”, se nella mente di Caino continueranno ad impazzare emozioni fuori di testa con lo stesso potente battito d’ali di un “effetto farfalla”?!